Pensavo che la versione migliore di me fosse quella più efficiente e produttiva. Dopo l’incontro con le teorie di un filosofo coreano, non ne sono più così sicura.
Incontri filosofici casuali
Se, come si suol dire, due indizi fanno una prova, alla terza volta in pochi giorni in cui mi sono imbattuta in una citazione del filosofo coreano Byung-Chul Han, ho pensato che dovevo per forza approfondire il suo pensiero.
I brani che avevo letto e ascoltato parlavano di bellezza e di stanchezza, due cose che mi riguardano da vicino. La prima perché non potrei fare bene il mio lavoro se non riflettessi sul concetto di bellezza; la seconda, beh, potendo la eviterei ma ultimamente pare essermi particolarmente affezionata.
Visto che quello della bellezza applicato alla fotografia e alla percezione della nostra immagine è un approfondimento molto più ampio che ho già in cantiere, ho aggiunto quei brani al resto del materiale e ho deciso di concentrarmi sulla cara, fedele stanchezza.
“La società della stanchezza”
Ho scoperto che Byung-Chul Han, che vive e lavora a Berlino, ha pubblicato una decina di anni fa un libro intitolato – guarda un po’ – “La società della stanchezza”. Che no, non era la profezia della mia vita da lì in poi ma un saggio che voleva riflettere su come ormai l’imperativo della produttività, del multitasking, della massima prestazione ed efficienza sia stato dal singolo così tanto interiorizzato che, anche quando si trova a lavorare in autonomia – quindi senza un capo che glielo impone –, si obbliga inconsciamente all’auto-sfruttamento. E, mi verrebbe da aggiungere, in certi casi finisce per dare per scontato che questa stessa efficienza ad ogni costo sia un dovere morale di fornitori e collaboratori.
Insomma, crediamo di farlo per scelta e di farlo in nome della nostra libertà e realizzazione personali, invece, secondo Byung-Chul Han, lavoriamo come dei pazzi per poi ritrovarci con qualche sorta di malattia mentale, nevrosi o esaurimento. Nel migliore dei casi, stanchi morti.
Poca noia e meno rituali
Anche l’eccesso di stimoli e informazioni a cui siamo sottoposti contribuisce a esaurire le nostre energie, costantemente impegnate nel porre attenzione. La noia ha perso la sua funzione di spinta per la creatività, per il gioco, per l’invenzione di nuove soluzioni e si è ritrovata con l’etichetta di esperienza negativa, da evitare ad ogni costo.
Byung-Chul Han ritiene che un altro colpevole della nostra stanchezza sia il tele-lavoro, nel suo essere privo di contatto fisico e di rituali che scandiscano il tempo.
In una società come la nostra, in cui i rituali erano già sempre meno, il lavoro da casa e le altre conseguenze della pandemia hanno fatto tabula rasa di abbracci e appuntamenti condivisi, fondamentali per il nostro benessere. Con rituali, non si intende chissà quali celebrazioni sacre: anche l’aperitivo con gli amici nel fine settimana o il cinema del mercoledì lo sono, per quanto semplici.
Un’idea di successo ed efficienza che viene da fuori
Le sensazioni che provavo man mano che approfondivo la lettura, erano molto simili a quando mi sono ritrovata ad aprire gli occhi su una cosa che era lì da vedere ma di cui non riuscivo ad accorgermi: avevo lasciato che la società e le persone che mi circondavano decidessero per me che cosa fosse il successo.
Allo stesso modo, ho assorbito che la migliore versione di me è quella più produttiva ed efficiente, cosa di cui ora non sono più tanto sicura. E inizio a pensare che qualcun altro là fuori condivida quello che ripeto spesso a mio marito: amo il mio lavoro ma quello che mi manca è timbrare un metaforico cartellino, lasciarmi un edificio altrui alle spalle e dire alla mia testa che basta, per oggi o per questa settimana il tempo del lavoro è finito. Chiuso, stop, non ci penso fino a quando non sarà il momento.
Invece, il più delle volte mi ritrovo a dirmi che avrei dovuto fare di più e che posso recuperare nel weekend oppure restando al computer fino alle otto di sera e oltre. Vista così, Leda non fa mai abbastanza e se non fa mai abbastanza è destinata al fallimento. Si potrebbe dire che nel tentativo di inseguire la felicità mi sto condannando non ad un reale fallimento ma – forse anche peggio – a convivere con una costante insoddisfazione e con un’autostima sotto i piedi a causa degli obiettivi impossibili che utilizzo come metro di giudizio.
E se ci riprendessimo il valore del tempo?
A onor del vero, preciso che non sono d’accordo con ogni singolo brano di Byung-Chul Han che ho letto, alcuni passaggi non mi hanno convinto fino in fondo ma ammetto anche di aver consultato solo una piccolissima parte del pensiero del filosofo. In ogni caso, queste letture mi hanno regalato tantissimi spunti di riflessione, domande ancora aperte e qualche impacciato tentativo di migliorare le cose nella mia quotidianità. Che per me sono dei buoni punti di partenza.
Mi sono anche ritrovata a chiedermi: e se la risposta non fosse ottimizzare? Se per fare le cose a modo nostro, per farle secondo ciò che per noi è la maniera migliore, fosse necessario rivedere il lavoro, personalizzarlo, revisionarlo, riadattarlo ogni volta che ne sentiamo il bisogno? Se ci servisse un margine per lasciar decantare idee e parole per essere sicuri che siano quelle giuste?
E se questo non fosse più visto come una perdita di tempo ma come un valore aggiunto, non sarebbe una piccola rivoluzione? Toglierebbe alla velocità l’importanza assoluta e la connotazione a tutti i costi positiva che ha assunto, la renderebbe un fattore come un altro e porterebbe il processo in sé ad essere il protagonista.
Di svago o lavorativo che sia, al nostro tempo verrebbe finalmente restituita l’importanza assoluta che merita una delle cose più limitate e preziose che abbiamo.
Se vuoi saperne di più
– Byung-Chul Han, “La società della stanchezza”
Il libro
– Presentazione di “La società della stanchezza”
La presentazione del libro al Goethe Institut di Roma
– Tlon, “I non oggetti, lectio magistralis di Byung-Chul Han”
Il pensiero di Han sui non oggetti, introdotto da Gancitano e Colamedici.
– El País, “Teletrabajo, ‘zoom’ y depresión: el filósofo Byung-Chul Han dice que nos autoexplotamos más que nunca”
“Telelavoro, zoom e depressione: il filosofo Byung-Chul Han dice che ci autosfruttiamo più che mai” (Per leggere l’articolo, viene richiesto di creare un account ma non la sottoscrizione di un abbonamento.)
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